not one word - le recensioni

Intervista a RockOnLine
di Gianni Sibilla
28 maggio 2001


Non ci si lasci ingannare dal titolo, apparentemente perentorio, in realtà giocoso e ironico. "Not one word" è il progetto "senza una parola" di Ivano Fossati, annunciato da tempo, a lungo rimandato e ora concretizzato. Un disco che mischia le carte in tavola della canzone popolare, perché è fatto di riferimenti popolari (la musica da film, il jazz, il tango), ma non di canzoni, almeno nel senso tradizionale del termine. In questa lunga chiacchierata con Rockol, Ivano Fossati ne racconta la genesi e la lavorazione, anticipando anche i progetti futuri della sua doppia vita.  
 Di questo progetto strumentale si è parlato a lungo, addirittura già ai tempi de "La disciplina della terra". Come mai esce solo ora? 
E' un progetto che ha richiesto una lunga gestazione. Se lo avessi realizzato allora, ne sarebbe uscito un lavoro completamente diverso. In questi due anni e mezzo trascorsi dal primo annuncio fino ad oggi l'idea è cambiata, si è modificata fino a diventare quella che è finita su disco. E' questa la ragione del ritardo: sentivo che l'idea stava cambiando e avevo timore ad affrontare un progetto che neanche io avevo ancora ben chiaro.
 Com'e nata l'idea di portare in primo piano quelle trame strumentali che sono sempre state presenti nella tua musica? 
Alla base c'era il desiderio di utilizzare il pianoforte, di provarmi su certe tessiture musicali nuove, c'era la voglia di fare un salto. Un salto che non è piccolo, ma grande: la rinuncia alla parola è una svolta importante per uno che ha scritto canzoni per trent'anni. Scrivere canzoni significa scrivere pensieri: più o meno riusciti, più o meno alti, ma sempre pensieri. Significa quindi usare le due ruote dell'espressione musicale, testo e musica. E, poi, nel mio caso, sono riuscito a fare quello che desideravo dall'inizio della mia carriera: io volevo suonare, mi sono sempre considerato uno che, cantando, aveva sbagliato mestiere. Può darsi che a cinquant'anni abbia riequilibrato questa situazione. Se per tutti questi anni ho desiderato fare una cosa di questo genere, significa che c'era una brace forte che covava. 
 Il progetto esce come "Ivano Fossati Double Life". Perché quest'aggiunta nell'intitolazione? 
Intanto perché questo progetto andrà avanti. Intendo Double Life come un'entità artistica diversa da me che scrivo canzoni. Era per dare un segnale netto: non un autore di canzoni che si mette al pianoforte e scrive anche della musica, ma uno che reinventa completamente la propria vita artistica. Io credo che, se mi riuscirà, porterò avanti queste due maniere di esprimermi, una con la parola, una con la musica. 
 Il disco ha un titolo inglese, e buona parte delle composizioni hanno titoli stranieri. Come mai? 
E' una scelta voluta, per sottolineare che una volta che si rinuncia alla parola allora qualunque parola in qualunque lingua ha senso. Un titolo può diventare più evocativo in spagnolo o in francese.
 A proposito di titoli: abituato a titolare le proprie canzoni in base alle parole che ne fanno parte, come ti sei regolato nel titolare le composizioni di questo disco, che di parole sono prive? 
Per la prima volta mi sono trovato nella posizione in cui si trovano tutti i compositori puri, come i jazzisti. In questi casi o si rinuncia completamente alla profondità del significato, dando titoli fittizi, oppure si caricano le proprie composizioni di significati precisi. Io vengo da un'attività di composizione, come quella delle canzoni, in cui il titolo è fondamentale e deve essere ben radicato dentro il significato della canzone. Quindi non posso fare a meno di significare un pezzo musicale con un titolo adeguato. Mi sono trovato per la prima volta di fronte ad una situazione per me problematica, che non conoscevo: il vuoto di parole ma non di significato, al quale bisogna dare un nome.
In questo disco affiorano diverse influenze musicali...  C'è il tango, c'è la musica da cinema, ci sono i pianisti. "Not one word", per esempio, è venuto fuori dal pianoforte dopo aver ascoltato Ahmad Jamal, anche se poi non gli assomiglia per niente. Quando si apre questa enorme finestra e si pensa che si ha di fronte tutto il possibile musicale, è una situazione pericolosissima... 
 E' come se i tuoi binari, stretti e rigorosi, fossero saltati. 
In questa meravigliosa selva di cose che ti attirano bisogna trovare la propria strada espressiva. E' stato
difficilissimo, ma anche uno dei lavori più entusiasmanti che abbia fatto negli ultimi anni.   
 Tra i pianisti c'è qualcuno che a cui ti senti vicino in questo disco? 
Verrebbe da dire Keith Jarrett... Come chiunque metta le mani più o meno bene sul pianoforte, adoro Jarrett. Però, se devo pensare a qualcuno che ho nella mente ogni volta che suono, dovrei citare John Lewis del Modern Jazz Quartet. Al mio livello, infinitamente più basso, ricordo un suo modo di armonizzare, di portare gli accordi, forse perché sono cresciuto ascoltandolo. 
 Tra tutti i brani originali, ce n'è uno che, di fatto, è uno standard, "Besame mucho"... Com'è nata l'idea di questa inclusione? 
Mi sembrava una cosa dovuta, innanzitutto al mio divertimento, perché è un brano che mi piace molto suonare. Poi dovuta al pubblico: prendendo a pretesto il racconto della storia della sua autrice, Consuelo Velasquez, l'ho suonata dal vivo negli ultimi due anni con grande successo. Così ho pensato che a molti avrebbe fatto piacere riascoltarla. Poi è un brano a cui sono molto affezionato. 
 Il disco non esce per la Columbia, la tua tradizionale etichetta, ma per la sorella Sony Classical. Non è impegnativa, come scelta? 
Ci abbiamo pensato assieme tutti, perché essere pubblicati da quest'etichetta ha un suo significato e può essere scambiato come un atto di presunzione. Per cui ho lasciato che decidessero loro: la Sony Classical fa le proprie scelte su cosa pubblicare direttamente in America, e io mi sono sottomesso volentieri, inviando loro tre-quattro composizioni . E' stato un ulteriore esame che ho affrontato volentieri. Poi la Sony Classical ha creato un recinto per gli anomali, per i pazzi. Un disco come il mio non viene pubblicato insieme a quelli di Mozart, ma insieme a quelli di musicisti che provano a fare un tipo di musica difficilmente etichettabile, che diversamente non avrebbe un territorio. Così mi sono trovato in buona compagnia con Joe Jackson, con Ryuichi Sakamoto... 
 Questo progetto prelude anche ad una "doppia vita" dal vivo?  
Per il momento no. Ho in mente che "Double life" sarà un progetto di studio, e se si porterà dal vivo succederà tra un bel po' di tempo. Deve sedimentare, io stesso devo capire come farlo e se ho voglia di farlo... 
 Per quanto riguarda l'altra vita, quella delle canzoni, ci sono progetti in corso? 
Ho in mente di realizzare un disco di canzoni intorno al 2003, anche se la data si sposta sempre più in là perché trovo sempre altre cose da fare che inquietano la mia casa discografica. Ma, certo, c'è in progetto più di un album... 

da La Repubblica del 22 maggio 2001

È musica senza parole la nuova poesia di Fossati
È uscito "Not one word" in cui il cantautore si esibisce da compositore
di Giacomo Pellicciotti

MILANO - È felice Ivano Fossati, perché ha appena realizzato un sogno che coltivava da tempo: un disco di «musica e basta», senza le inevitabili parole del cantautore consacrato. Esce in questi giorni per la Sony Classical Not one word, un album senza parole appunto, dove per una volta il cantante va in vacanza e, a sorpresa, lo sostituisce il pianista sensibile. Ma Fossati suona anche il vibrafono, l'armonium e gli oscillatori con un numero variabile di musicisti fidati, come l'arrangiatore Paolo Silvestri, suo figlio Claudio alle percussioni, Martina Marchiori al violoncello, Gabriele Mirabassi al clarinetto e altri. Il nome del progetto Double Life allude, evidentemente, alla «doppia vita» che l'artista genovese ha rimuginato a lungo. Un sogno alimentato fin da bambino, quando a otto anni cominciò a studiare il pianoforte pensando di diventare un grande concertista. E' musica molto gradevole, semplice e ricca di memorie, emozioni, amori accarezzati per anni e alla fine esplosi tutti in una volta come una sorta di liberazione. Senza alcuna pretesa di competere con i mostri sacri che l'hanno ispirato o i dischi favoriti ascoltati fino alla consunzione, Ivano lascia trasparire nei 14 brani della raccolta (13 originali e Besame mucho di Consuelo Velasquez) la sua predilezione per il jazz più lirico di pianisti come Ahmad Jamal, Bill Evans, John Lewis o Keith Jarrett, il tango coltoappassionato di Astor Piazzolla e le colonne sonore di Ennio Morricone, Michel Legrand e Ryuichi Sakamoto, con un gusto e una delicatezza rari. Racconta Fossati con insolito pudore: «E' un'aspirazione che ho lasciato crescere dentro per anni, anche se nell'arco del tempo mi sono convinto che per suonare e basta bisogna studiare molto. Nel 1993 mi è tornata la voglia e ho ripreso il piano, sottoponendomi a esercizi di ore e ore al giorno. Ma ci tengo a pensare che non sono un pianista, anche se suono in maniera personale. Il vibrafono lo tratto come un carillon e mi preoccupo di come scrivere i temi, senza nascondere le mie suggestioni musicali, ma facendo attenzione a non scimmiottare i diversi generi. E' come un cinema immaginario, come se mi fossi autocommissionato la colonna sonora di un film personale». Forse Not one word fa da contrappeso a una certa stanchezza creativa che si avverte nei nostri cantautori storici. Ivano è d'accordo: «Esperimenti come il mio servono in parte a rompere l'intollerabile ripetitività dello scrivere canzoni. Anche se la grande pagina dei cantautori è stata forse già scritta, penso che gli unici ad avere il diritto di ripetersi sono coloro che hanno cominciato. Quei pochi, come De André o De Gregori, che sanno cos'è la poesia. Gli altri, i più giovani, è meglio che partano da altre posizioni, che sperimentino altre vie». Come vede ora il suo futuro, più come cantautore o come musicista tout court? «Mi piacerebbe alternare le due cose, tenendole autonome e separate, ma non so quale delle due continuerò a fare fino alla fine. So solo che il prossimo album sarà di canzoni, ma non uscirà prima del 2003. Intanto, grazie all'esperienza inaugurata dai Double Life, stiamo mettendo su con Claudio un laboratorio musicale che dovrebbe favorire l'incontro con altri musicisti anche stranieri. Non mi dispiacerebbe fare qualche concerto. Avrei bisogno di un'altra vita, ma stavolta ricominciando sceglierei la carriera del pianista».

da Il Corriere della Sera del16 maggio 2001

Fossati: rinuncio alle parole
«Con un album strumentale mi regalo un' altra vita artistica»
Il cantautore, domani ospite di Celentano, presenta il nuovo «Not One Word»
Fossati
: rinuncio alle parole «Con un album strumentale mi regalo un' altra vita artistica»
di Polese Ranieri

MILANO - «Not One Word», senza parole: con questo titolo si presenta il nuovo album di Ivano Fossati. Un titolo provocatorio per uno che da trent'anni scrive e canta canzoni che tutti ormai conoscono a memoria. Canzoni che a volte finiscono anche per diventare manifesti. Come accadde a «La canzone popolare» scelta da Veltroni per il Pds, o come ha rischiato di succedere per «Io sono un uomo libero» scritta per l' ultimo disco di Celentano e che D'Antoni ha cercato di annettersi a causa del verso «né destra né sinistra». «Ma non c' era solo quel verso nella canzone - replica Fossati -, ad ascoltarla tutta si vede bene che con quella coalizione non c' entrava per niente». Sì, però questa volta, parole zero.
Quattordici brani strumentali con protagonista il pianoforte («Non penso di essere un grande pianista, solo di avere qualche e capacità meccanica sulla tastiera»), di cui dodici composti dallo stesso Fossati, uno da suo figlio, Claudio, 27 anni, e un classico, «Besame mucho», che Ivano aveva già riproposto nell' ultima tournée. La struttura, a volte, sembra da camera (pianoforte e violoncello, pianoforte e clarinetto), a volte è vicina al jazz. «Conosco bene il jazz e la musica da camera, ma conosco anche i miei limiti: non ho voluto invadere territori che non mi appartengono».
E allora «Not One Word» che cos' è? «E' la raccolta di temi musicali per un film che non c' è». Strano, anche Paolo Conte con «Razmataz» ha scritto musica per un musical che non c' è. «Forse tutti e due abbiamo scoperto il fenomeno dell' auto-commissione». Che vuol dire? «Vuol dire che uno pensa a un film perfetto, a un musical ideale e fa la musica per questa ipotesi che è solo sua». Ma con quest' album lei vuol chiudere con le canzoni? «No, continuerò a scriverne. Grazie alle canzoni mi son potuto guadagnare una mia bolla di libertà . Ma il fatto è che fin da ragazzo ho sempre pensato di suonare strumenti. Ora credo sia giunto il momento di permettermi anche una seconda vita, di dar modo di affermarsi anche a quest' altro Fossati». Non c' è, implicita, nel suo album strumentale una denuncia della crisi della canzone? «Intendiamoci, se si vuol parlare di grandi canzoni io posso citare quelle di alcuni cantautori degli anni ' 70 (De Gregori, Guccini, De André), artisti in grado di racchiudere nei loro testi una quantità di pensieri tale che potevano bastare per tre generazioni. Altrimenti penso alla grande musica leggerissima degli anni ' 60, Caselli, Celentano, Rita Pavone: canzoni bellissime, con un senso artistico e sociale preciso, indiscutibile. Dopo - e mi ci metto anch' io dentro - ci sono state canzoni presuntuose, pretestuose che hanno molto impoverito tutto. Oggi, una bella canzone è diventata davvero rara». Celentano l' ha invitata al suo show: cosa farà domani in tv? «Canterò una canzone di Adriano (forse "Viola") e farò ascoltare qualcosa di questo album. Ho sempre ammirato Adriano, so a memoria tutte le sue canzoni. Lo dissi al suo manager che era venuto a un mio concerto. Aggiunsi: mi piacerebbe scrivere una canzone per lui. La mattina dopo mi chiamarono. E' nata così "Io sono un uomo libero", un cui verso ha dato il titolo all' album: "Esco di rado e parlo ancora meno"». Dei risultati elettorali, che pensa? «Anche se tardiva, spero che questa lezione possa essere assimilata dalla sinistra: quando s i vuole veramente l' unità, gli accordi sono sempre possibili. Per quel che riguarda Berlusconi, mi pare che non possa più presentarsi con l' aureola del martire: ora ha vinto, non può più accusare gli altri di demonizzarlo». E della presenza di arti sti come Benigni, la Ferilli nella campagna elettorale che dice? «Chi si è esposto ha fatto benissimo, li ho ammirati tutti. Se artisti significativi la pensano così, una ragione ci sarà».


L’Unità – mercoledì 16 maggio 2001

“Not One Word”, una bella copertina, quattordici brani, un pianoforte in primo piano
E’ MUSICA CLASSICA? FORSE NO, MA MERITA SALE DA CONCERTO
Franco Fabbri

Chi fa canzoni - dico apposta "fa" e non "scrive" - non smette mai di pensare di essere un musicista. Ci vuole impegno, concentrazione, gusto, talento, a costruire spunti melodici, a coordinarli con successioni di accordi, con riff, grooves o altri marchingegni contrappuntistici, a concepire un arco formale, a immaginare una strumentazione, a interagire costruttivamente col testo. Non importa quanto sofisticato sia l'armamentario teorico, non importa se si abbia a che fare con un bozzetto genialmente fatto di stereotipi come Don Raffaè o con una costruzione cinematografica come Se telefonando (o come Una notte in Italia), non importa se per memorizzare il proprio lavoro si usi un registratore o si scriva in partitura: chi fa canzoni è un musicista, un compositore. Anche chi le ascolta non se lo dimentica. Curiosamente, se lo scordano spesso i critici. Come è difficile trovare un articolo o un libro che parli di canzoni, e nel quale ci siano più di un paio di righe dedicate alla musica, in mezzo a corpose riflessioni sui testi, sulla biografia dell’autore (del cantautore), sulla sociologia dell'ascolto! «Il pubblico non capirebbe», spiega il critico, dispensando parole come "lessema" o "déraciné", e mascherando la propria incerta padronanza delle trascendentali nozioni di "accordo" o "scala" (per non dire di "semitono").

I musicisti che fanno canzoni a volte se la prendono: Fabrizio De André, ad esempio, rivendicava con forza il suo essere un compositore, anche se di un tipo diverso da quelli per i quali abitualmente si usa questo termine. E forse qualcosa di questo rispettabilissimo e costruttivo risentimento c'è anche nell'ultimo lavoro di Ivano Fossati, scritto per un rado organico che comprende Martina Marchiori al violoncello, Paolo Silvestri a dirigere alcune stesure orchestrali, Claudio Fossati alla batteria, ospiti come Gabriele Mirabassi e altri notevoli strumentisti, oltre al pianoforte e al vibrafono dello stesso Ivano. C'è, quel risentimento costruttivo, a cominciare dal titolo, Not One Word, scritto in molte lingue su una bella copertina lontana dagli standard grafici della canzone (almeno in Italia), e molto più vicina all'immagine della musica strumentale "non classica" contemporanea, quella dei dischi ECM, per intenderci. Tra l'altro, il cd di Fossati (intestato a Ivano Fossati Double Life: un progetto, un gruppo aperto) esce proprio per l'etichetta Sony Classical, a sottolineare con forza istituzionale il distacco, la diversità rispetto alla canzone, almeno dal punto di vista del consumo. 

La qualità e il carattere di questo album di canzoni senza parole (parafrasando Mendelssohn) non sorprendono chi abbia presente il lavoro di Fossati nel campo per il quale è più noto, né tantomeno chi abbia ascoltato le sue colonne sonore per i film di Carlo Mazzacurati. Lo stesso Fossati tiene a ricordare come fra le sue canzoni e i suoi album «serpeggi la scrittura strumentale fino dall'inizio», come «non abbia potuto fare a meno di "contrabbandare" temi strumentali» in quasi tutti i suoi dischi. E, si potrebbe aggiungere, anche la qualità degli strumentisti è sempre stata molto alta. Qui però c'è l'intenzione, la "forte volontà" di fare qualcosa di diverso, e non si può non tenerne conto.

In molti dei quattordici brani dell'album (tutti di Ivano Fossati, tranne uno di Claudio Fossati, uno scritto in collaborazione con Paolo Silvestri, più la classica Besame mucho) lo strumento protagonista è il pianoforte, con un suono solo leggermente riverberato, apparentemente non compresso, un timbro "naturale". La ripresa sonora non è invasiva, ma non è neppure totalmente trasparente: più vicina, negli intenti, nei mezzi e nei risultati, al "suono ECM" o a quello della nuova musica da camera.(Krónos Quartet, ma anche il disco recente di Viktoria Mullova con il suo ensemble). Sono importanti gli spazi, i silenzi, l'aria: ma questa è una caratteristica evidente del modo di comporre e di pensare il suono di Fossati anche quando si occupa di canzoni. Come pianista, nel ruolo principale che è affidato a questo strumento, Fossati fa un'ottima figura: non esagera, non pretende di essere il virtuoso che non è, ha precisione ed espressione, tanto che le sue stesse dichiarazioni («questo primo capitolo del progetto non fa di me un pianista ma semmai un utilizzatore assai poco ortodosso del pianoforte») appaiono eccessivamente modeste: Fossati sa quello che fa, sia come pianista che come compositore.

Ma è musica "classica"? La domanda, lo so, è sciocca, eppure è imposta dall'etichetta. Verrebbe da rispondere: non più e non meno di quella di alcuni compositori cresciuti nel mondo "colto" (ho in mente soprattutto Ludovico Einaudi) che sembrano aver intrapreso nell'universo delle musiche un percorso inverso a quello di Fossati. Ma va dato atto a Ivano di non cercare legittimazioni inutili: lo dichiara lui stesso, di non considerarsi «un compositore nel senso classico e "alto" del termine». Al di là del fatto che per le orchestrazioni si serve della collaborazione di Paolo Silvestri (e questa è una pratica inusuale nella musica "classica", malgrado precedenti illustri come la Rapsodia in blu di Gershwin), c'è in Fossati e in questo lavoro un atteggiamento nei confronti del suono, della melodia, della costruzione armonica, che trova corrispondenze nel jazz, nella canzone e
nella musica da film di qualità, ma che non appartiene ai musicisti "colti" contemporanei, nemmeno a quelli che (nei fatti o a parole) sembrano volersi aprire a quei mondi. Se la domanda.vuol significare: «Ma queste musiche, dal vivo, potrebbero essere eseguite in una sala da concerto?» La risposta è: «Dovrebbero». Ma allo stesso modo con cui le sale da concerto si sono aperte e si apriranno sempre di più alla buona musica, di tutti i tipi. L'obiettivo non è quello di ottenere un'accettazione come compositore "colto" che nemmeno lo stesso Fossati chiede (è un ottimo compositore, ed è una persona colta: ma questo non vuoi dire!), è quello di portare all'attenzione di un pubblico più vasto un ambito di musiche strumentali fascinose, riservate, che finora ha una circolazione molto limitata. Qualche anno fa un altro - meno noto - musicista di valore che lavora con le canzoni, Vittorio Cosma, ha fatto un disco, Colpo di Luna, bellissimo come questo di Fossati. Credo che siamo in dieci o venti, ad averlo. E cosa dire di quelli di Piero Milesi, magnifico orchestratore e produttore di Anime salve, pubblicati da un'oscura etichetta del Maryland?
Bravo, e benvenuto nel mondo della musica strumentale, Ivano. Di cuore.


L’Unità – mercoledì 16 maggio 2001

FOSSATI SENZA PAROLE
Dall’autore di testi rimasti nella storia della canzone italiana un cd di sola musica, colonna sonora di un film che non c’è

Maria Novella Oppo

MILANO La «doppia vita» di Ivano Fossati comincia con un album di sola musica che fa parte di un progetto (chiamato appunto «Double Life»). Ma che senso ha, proprio oggi, rinunciare alla possibilità di parlare? Glielo abbiamo chiesto in questi giorni di strepiti postelettorali e di interrogativi senza risposta.

Ivano, ma com’è: non ci sono più parole?
«Mah, guarda, non so. Ho la sensazione che il risultato delle elezioni sia più grigio che netto. Il nostro è un Paese campione dell'arte sofisticata di alzare polveroni, costruire monumenti di parole per poi non cambiare quasi niente. Siamo perfettamente assestati nel centro di questo ago della bilancia che non accenna a muoversi dai tempi della vecchia Dc». 
Si è molto discusso dell'intervento degli artisti nella campagna elettorale e qualcuno dice che sono stati controproducenti.
«Controproducenti non credo, che sia servito a qualcosa non so. Però so che ho sempre stima per chi si espone e non importa per quale lato. Mentre ho sempre provato un certo fastidio per quelli che si ostinano ad acchiappare tutto e tutti. Questo vestito di grigiore ideologico viene indossato in nome di un'arte che non avrebbe colore. Effettivamente l'arte non ha colore, ma ha pensiero ed è bene che si manifesti». 
Passando alla musica, sembra che tu tenda spesso ad abiurare le tue canzoni più amate. Lo hai fatto con "La mia banda suona il rock" e anche con la "Canzone popolare".
«Mi capita specialmente con certe canzoni. Se penso agli interessi musicali miei di oggi e alle canzoni di anni fa ... alcune me le tengo care, altre non mi interessano più. Posso provare affetto per qualche ricordo, ma ... ».

Come si prova affetto per canzoni scritte da altri?
«Sì, come se fossero cose che non mi appartengono più. Le ascolto senza rinnegarle, ma solo per una questione di buon gusto. Le cose fatte si riconoscono nel bene e nel male».
Prima di sentire questo tuo disco nuovo, pensavo che mi sarebbero mancate le parole, ma quando l'ho sentito mi sono accorta che mi mancavano le immagini, perché è una musica che evoca luoghi e storie.
«Sono rimasto sorpreso anch'io. Sono partito dall'idea di un lavoro che tenesse più conto delle cose studiate in questi ultimi anni. Invece mi sono trovato a fare la colonna sonora di un film immaginario. Pensavo che la mia liberazione dalla parola mi avrebbe reso molto più estremo.
Pensavo che mi sarei lasciato andare a tutte le tentazioni di atonalità e a cose meno accessibili.            Invece la mia sensibilità, il mio non essere un pianista, mi hanno portato in questa direzione forse vicina non più alla canzone, ma a un film che non c'è e non ci sarà, con grande vantaggio, devo dire, per la possibilità di comprensione e anche di commerciabilità, che però non è stata cercata».   

E che cosa cercavi?
«Prima di tutto c'è l'aspetto della prova. Per uno come me, che ha scritto canzoni sbagliando mestiere (il mio sogno era suonare) e che si è tenuto vicino questo fantasma suonatore, era inevitabile che prima o poi sarebbe venuto fuori. A 50 anni non ce l'ho più fatta a trattenerlo: si è seduto al pianoforte e ha cominciato a suonare. Non hai idea della felicità di uno che scrive le canzoni per 30 anni e poi apre questa porta su uno spazio dove tutto è possibile. Le parole sono uno steccato, il rischio, scrivendo canzoni è di trasformarsi in piccolo narratore e piccolo musicista».

Perché, essere un grande autore di canzoni non è una possibilità sufficiente?
«In base al mio grado di curiosità no. Io mi stanco di qualunque cosa in tempi rapidissimi. E poi per affrontare questo nuovo lavoro ho studiato per 7 anni. Il progetto era lì da tempo». 
Ma tornerai a scrivere canzoni e testi, spero.
«Il prossimo sarà un disco di canzoni. E’ il mio lavoro amato, però questa prova la volevo proprio fare. Ma soprattutto mi piace l'idea di dividere la mia vita in due. Se scrivessi una colonna sonora all'anno, o se mi offrissero una bella sceneggiatura diciamo ogni due anni forse ... ma le occasioni di esprimersi solo con la musica sono rare».
Però in questo momento che sembra così imbarbarito, le parole aiutano a trovare un senso.
«Il senso si trova anche nella musica. Il conforto della parola lo trovo dentro la musica. E’ solo questione di abituarsi a tendere l'orecchio».
Forse il luogo dove è più difficile trovare un senso (e anche ritrovare il senso delle parole) è la politica.
«Vedo ancora tante persone attente, sensibili, nitidamente in rapporto col tempo che vivono. Al di là dello sconforto, trovo che il pensiero di molta gente sia vivissimo. Gli avvenimenti politici influiscono in modo pesante sui nostri umori, ma non al punto di piegarli».

Forse sarebbe il momento di tornare tutti a fare politica
«Il mestiere della politica non lo penso più. Lo pensavo fino a una quindicina di anni fa. Oggi divido le cose solo in azioni utili o disutili, in persone trasparenti e no. Procedo col machete nella giungla, come riesco, come posso, evitando i tranelli e le persone dannose».

E non ti ha mai attirato il mestiere della politica?
«Sono grato alla sorte di avermi dato la capacità di fare la musica. Non so fare altro. Al contrario di quello che dice Berlusconi, la politica è un mestiere preciso, che io non saprei fare, ma so riconoscere. Gli artisti si prestano ad essere simboli, ma ora c'è più bisogno di gente che lavora».

(Articoli rintracciati grazie ad Alex e agli amici della Mailing List)

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