not
one word
- le recensioni
Intervista
a RockOnLine
di Gianni Sibilla
28 maggio 2001
Non ci si lasci ingannare dal titolo, apparentemente perentorio, in realtà giocoso e ironico. "Not one
word" è il progetto "senza una parola" di Ivano Fossati, annunciato da tempo, a lungo rimandato e ora concretizzato.
Un disco che mischia le carte in tavola della canzone popolare, perché è fatto di riferimenti popolari (la musica da film, il jazz, il tango), ma
non di canzoni, almeno nel senso tradizionale del termine. In questa lunga chiacchierata con Rockol,
Ivano Fossati ne racconta la genesi e la lavorazione, anticipando anche i progetti futuri della sua doppia vita.
Di questo progetto strumentale si è parlato a lungo, addirittura già ai tempi de
"La disciplina della terra". Come mai esce solo ora?
E' un progetto che ha richiesto una lunga gestazione. Se lo avessi realizzato allora, ne sarebbe uscito un lavoro completamente diverso. In questi due
anni e mezzo trascorsi dal primo annuncio fino ad oggi l'idea è cambiata, si è modificata fino a diventare quella che è finita su disco. E' questa
la ragione del ritardo: sentivo che l'idea stava cambiando e avevo timore ad affrontare un progetto che neanche io avevo ancora ben chiaro.
Com'e nata l'idea di portare in primo piano quelle trame strumentali che sono
sempre state presenti nella tua musica?
Alla base c'era il desiderio di utilizzare il pianoforte, di provarmi su certe tessiture musicali nuove,
c'era la voglia di fare un salto. Un salto che non è piccolo, ma grande: la rinuncia alla parola è una svolta importante per uno che ha scritto
canzoni per trent'anni. Scrivere canzoni significa scrivere pensieri: più o meno riusciti, più o meno alti, ma sempre pensieri. Significa quindi
usare le due ruote dell'espressione musicale, testo e musica. E, poi, nel mio caso, sono riuscito a fare quello che desideravo dall'inizio della mia
carriera: io volevo suonare, mi sono sempre considerato uno che, cantando, aveva sbagliato mestiere. Può darsi che a cinquant'anni abbia
riequilibrato questa situazione. Se per tutti questi anni ho desiderato fare una cosa di questo genere, significa che c'era una brace forte che
covava.
Il progetto esce come "Ivano Fossati Double Life". Perché quest'aggiunta
nell'intitolazione?
Intanto perché questo progetto andrà avanti. Intendo Double Life come un'entità artistica diversa da me che scrivo canzoni. Era
per dare un segnale netto: non un autore di canzoni che si mette al pianoforte e scrive anche della musica, ma uno che reinventa completamente
la propria vita artistica. Io credo che, se mi riuscirà, porterò avanti queste due maniere di esprimermi, una con la parola, una con la musica.
Il disco ha un titolo inglese, e buona parte delle composizioni hanno titoli stranieri. Come mai?
E' una scelta voluta, per sottolineare che una volta che si rinuncia alla parola allora qualunque parola in qualunque
lingua ha senso. Un titolo può diventare più evocativo in spagnolo o in francese.
A proposito di titoli: abituato a titolare le proprie canzoni in base alle
parole che ne fanno parte, come ti sei regolato nel titolare le composizioni di questo disco, che di parole sono prive?
Per la prima volta mi sono trovato nella posizione in cui si trovano tutti i compositori
puri, come i jazzisti. In questi casi o si rinuncia completamente alla profondità del significato, dando titoli fittizi, oppure si caricano le
proprie composizioni di significati precisi. Io vengo da un'attività di composizione, come quella delle canzoni, in cui il titolo è fondamentale e
deve essere ben radicato dentro il significato della canzone. Quindi non posso fare a meno di significare un pezzo musicale con un titolo adeguato.
Mi sono trovato per la prima volta di fronte ad una situazione per me problematica, che non conoscevo: il vuoto di parole ma non di significato,
al quale bisogna dare un nome.
In questo disco affiorano diverse influenze musicali... C'è il tango, c'è la musica da cinema, ci sono i pianisti. "Not one
word", per esempio, è venuto fuori dal pianoforte dopo aver ascoltato Ahmad
Jamal, anche se poi non gli assomiglia per niente. Quando si apre questa enorme finestra e si pensa che si ha di fronte tutto il possibile
musicale, è una situazione pericolosissima...
E' come se i tuoi binari, stretti e rigorosi, fossero saltati.
In questa meravigliosa selva di cose che ti attirano bisogna trovare la propria strada espressiva. E' stato
difficilissimo, ma anche uno dei lavori più entusiasmanti che abbia fatto negli ultimi anni.
Tra i pianisti c'è qualcuno che a cui ti senti vicino in questo disco?
Verrebbe da dire Keith Jarrett... Come chiunque metta le mani più o meno
bene sul pianoforte, adoro Jarrett. Però, se devo pensare a qualcuno che
ho nella mente ogni volta che suono, dovrei citare John Lewis del Modern
Jazz Quartet. Al mio livello, infinitamente più basso, ricordo un suo modo di armonizzare, di portare gli accordi, forse perché sono cresciuto
ascoltandolo.
Tra tutti i brani originali, ce n'è uno che, di fatto, è uno standard, "Besame mucho"... Com'è nata l'idea di questa inclusione?
Mi sembrava una cosa dovuta, innanzitutto al mio divertimento, perché è un brano che mi
piace molto suonare. Poi dovuta al pubblico: prendendo a pretesto il racconto della storia della sua autrice,
Consuelo Velasquez, l'ho suonata dal vivo negli ultimi due anni con grande successo. Così ho pensato che a
molti avrebbe fatto piacere riascoltarla. Poi è un brano a cui sono molto affezionato.
Il disco non esce per la Columbia, la tua tradizionale etichetta, ma per la sorella Sony Classical. Non è impegnativa, come scelta?
Ci abbiamo pensato assieme tutti, perché essere pubblicati da quest'etichetta ha un
suo significato e può essere scambiato come un atto di presunzione. Per cui ho lasciato che decidessero loro: la Sony Classical fa le proprie
scelte su cosa pubblicare direttamente in America, e io mi sono sottomesso volentieri, inviando loro tre-quattro composizioni . E' stato un ulteriore
esame che ho affrontato volentieri. Poi la Sony Classical ha creato un recinto per gli anomali, per i pazzi. Un disco come il mio non viene
pubblicato insieme a quelli di Mozart, ma insieme a quelli di musicisti che provano a fare un tipo di musica difficilmente etichettabile, che
diversamente non avrebbe un territorio. Così mi sono trovato in buona compagnia con Joe Jackson, con
Ryuichi Sakamoto...
Questo progetto prelude anche ad una "doppia vita" dal vivo?
Per il momento no. Ho in mente che "Double life" sarà un progetto di
studio, e se si porterà dal vivo succederà tra un bel po' di tempo. Deve sedimentare, io stesso devo capire come farlo e se ho voglia di farlo...
Per quanto riguarda l'altra vita, quella delle canzoni, ci sono progetti in corso?
Ho in mente di realizzare un disco di canzoni intorno al 2003, anche se la data si sposta sempre più in là perché trovo sempre altre cose
da fare che inquietano la mia casa discografica. Ma, certo, c'è in progetto più di un album...
da
La Repubblica del 22 maggio 2001
È musica senza parole
È
uscito "Not one word" in cui il cantautore si esibisce da compositore
di
Giacomo Pellicciotti
MILANO
- È felice Ivano Fossati, perché ha appena realizzato un sogno che
coltivava da tempo: un disco di «musica e basta», senza le inevitabili parole
del cantautore consacrato. Esce in questi giorni per la Sony Classical Not
one word, un album senza parole appunto, dove per una volta il cantante va
in vacanza e, a sorpresa, lo sostituisce il pianista sensibile. Ma Fossati
suona anche il vibrafono, l'armonium e gli oscillatori con un numero variabile
di musicisti fidati, come l'arrangiatore Paolo Silvestri, suo figlio Claudio
alle percussioni, Martina Marchiori al violoncello, Gabriele Mirabassi
al clarinetto e altri. Il nome del progetto Double Life allude,
evidentemente, alla «doppia vita» che l'artista genovese ha rimuginato a
lungo. Un sogno alimentato fin da bambino, quando a otto anni cominciò a
studiare il pianoforte pensando di diventare un grande concertista. E' musica
molto gradevole, semplice e ricca di memorie, emozioni, amori accarezzati per
anni e alla fine esplosi tutti in una volta come una sorta di liberazione. Senza
alcuna pretesa di competere con i mostri sacri che l'hanno ispirato o i dischi
favoriti ascoltati fino alla consunzione, Ivano lascia trasparire nei 14 brani
della raccolta (13 originali e Besame mucho di Consuelo Velasquez)
la sua predilezione per il jazz più lirico di pianisti come
Ahmad Jamal, Bill Evans, John Lewis o Keith Jarrett, il tango coltoappassionato
di Astor Piazzolla e le colonne sonore di Ennio Morricone, Michel
Legrand e Ryuichi Sakamoto, con un gusto e una delicatezza rari.
Racconta Fossati con insolito pudore: «E' un'aspirazione che ho lasciato
crescere dentro per anni, anche se nell'arco del tempo mi sono convinto che per
suonare e basta bisogna studiare molto. Nel 1993 mi è tornata la voglia e ho
ripreso il piano, sottoponendomi a esercizi di ore e ore al giorno. Ma ci tengo
a pensare che non sono un pianista, anche se suono in maniera personale. Il
vibrafono lo tratto come un carillon e mi preoccupo di come scrivere i temi,
senza nascondere le mie suggestioni musicali, ma facendo attenzione a non
scimmiottare i diversi generi. E' come un cinema immaginario, come se mi fossi
autocommissionato la colonna sonora di un film personale». Forse Not one
word fa da contrappeso a una certa stanchezza creativa che si avverte nei
nostri cantautori storici. Ivano è d'accordo: «Esperimenti come il mio servono
in parte a rompere l'intollerabile ripetitività dello scrivere canzoni. Anche
se la grande pagina dei cantautori è stata forse già scritta, penso che gli
unici ad avere il diritto di ripetersi sono coloro che hanno cominciato. Quei
pochi, come De André o De Gregori, che sanno cos'è la poesia.
Gli altri, i più giovani, è meglio che partano da altre posizioni, che
sperimentino altre vie». Come vede ora il suo futuro, più come cantautore o
come musicista tout court? «Mi piacerebbe alternare le due cose, tenendole
autonome e separate, ma non so quale delle due continuerò a fare fino alla
fine. So solo che il prossimo album sarà di canzoni, ma non uscirà prima del
2003. Intanto, grazie all'esperienza inaugurata dai Double Life, stiamo
mettendo su con Claudio un laboratorio musicale che dovrebbe favorire
l'incontro con altri musicisti anche stranieri. Non mi dispiacerebbe fare
qualche concerto. Avrei bisogno di un'altra vita, ma stavolta ricominciando
sceglierei la carriera del pianista».
da Il Corriere della Sera del16 maggio 2001
Fossati:
rinuncio alle parole
«Con
un album strumentale mi regalo un' altra vita artistica»
Fossati: rinuncio alle parole «Con un album strumentale mi regalo un' altra
vita artistica»
di Polese Ranieri
MILANO - «Not One Word», senza parole: con questo titolo si presenta il
nuovo album di Ivano Fossati. Un titolo provocatorio per uno che
da trent'anni scrive e canta canzoni che tutti ormai conoscono a memoria.
Canzoni che a volte finiscono anche per diventare manifesti. Come accadde a «La
canzone popolare» scelta da Veltroni per il Pds, o come ha rischiato
di succedere per «Io sono un uomo libero» scritta per l' ultimo
disco di Celentano e che D'Antoni ha cercato di annettersi a causa
del verso «né destra né sinistra». «Ma non c' era solo quel verso nella
canzone - replica Fossati -, ad ascoltarla tutta si vede bene che con
quella coalizione non c' entrava per niente». Sì, però questa volta, parole
zero.
Quattordici brani strumentali con protagonista il pianoforte («Non penso di
essere un grande pianista, solo di avere qualche e capacità meccanica sulla
tastiera»), di cui dodici composti dallo stesso Fossati, uno da suo figlio, Claudio,
27 anni, e un classico, «Besame mucho», che Ivano aveva già
riproposto nell' ultima tournée. La struttura, a volte, sembra da camera
(pianoforte e violoncello, pianoforte e clarinetto), a volte è vicina al jazz.
«Conosco bene il jazz e la musica da camera, ma conosco anche i miei limiti:
non ho voluto invadere territori che non mi appartengono».
E allora «Not One Word» che cos' è? «E' la raccolta di temi musicali
per un film che non c' è». Strano, anche Paolo Conte con «Razmataz»
ha scritto musica per un musical che non c' è. «Forse tutti e due abbiamo
scoperto il fenomeno dell' auto-commissione». Che vuol dire? «Vuol dire che
uno pensa a un film perfetto, a un musical ideale e fa la musica per questa
ipotesi che è solo sua». Ma con quest' album lei vuol chiudere con le canzoni?
«No, continuerò a scriverne. Grazie alle canzoni mi son potuto guadagnare una
mia bolla di libertà . Ma il fatto è che fin da ragazzo ho sempre pensato di
suonare strumenti. Ora credo sia giunto il momento di permettermi anche una
seconda vita, di dar modo di affermarsi anche a quest' altro Fossati».
Non c' è, implicita, nel suo album strumentale una denuncia della crisi della
canzone? «Intendiamoci, se si vuol parlare di grandi canzoni io posso citare
quelle di alcuni cantautori degli anni ' 70 (De Gregori, Guccini, De
André), artisti in grado di racchiudere nei loro testi una quantità di
pensieri tale che potevano bastare per tre generazioni. Altrimenti penso alla
grande musica leggerissima degli anni ' 60, Caselli, Celentano, Rita
Pavone: canzoni bellissime, con un senso artistico e sociale preciso,
indiscutibile. Dopo - e mi ci metto anch' io dentro - ci sono state canzoni
presuntuose, pretestuose che hanno molto impoverito tutto. Oggi, una bella
canzone è diventata davvero rara». Celentano l' ha invitata al suo
show: cosa farà domani in tv? «Canterò una canzone di Adriano (forse
"Viola") e farò ascoltare qualcosa di questo album. Ho sempre
ammirato Adriano, so a memoria tutte le sue canzoni. Lo dissi al suo
manager che era venuto a un mio concerto. Aggiunsi: mi piacerebbe scrivere una
canzone per lui. La mattina dopo mi chiamarono. E' nata così "Io sono un
uomo libero", un cui verso ha dato il titolo all' album: "Esco
di rado e parlo ancora meno"». Dei risultati elettorali, che pensa? «Anche
se tardiva, spero che questa lezione possa essere assimilata dalla sinistra:
quando s i vuole veramente l' unità, gli accordi sono sempre possibili. Per
quel che riguarda Berlusconi, mi pare che non possa più presentarsi con
l' aureola del martire: ora ha vinto, non può più accusare gli altri di
demonizzarlo». E della presenza di arti sti come Benigni, la Ferilli
nella campagna elettorale che dice? «Chi si è esposto ha fatto benissimo, li
ho ammirati tutti. Se artisti significativi la pensano così, una ragione ci sarà».
L’Unità – mercoledì 16 maggio 2001
“Not One Word”, una bella copertina, quattordici brani,
un pianoforte in primo piano
E’ MUSICA CLASSICA? FORSE NO, MA MERITA SALE DA CONCERTO
Franco Fabbri
Chi fa canzoni - dico apposta
"fa" e non "scrive" - non smette mai di pensare di essere un
musicista. Ci vuole impegno, concentrazione, gusto, talento, a costruire spunti
melodici, a coordinarli con successioni di accordi, con riff, grooves o altri
marchingegni contrappuntistici, a concepire un arco formale, a immaginare una
strumentazione, a interagire costruttivamente col testo. Non importa quanto
sofisticato sia l'armamentario teorico, non importa se si abbia a che fare con
un bozzetto genialmente fatto di stereotipi come Don Raffaè o con una
costruzione cinematografica come Se telefonando (o come Una
notte in Italia), non importa se per memorizzare il proprio lavoro si usi un
registratore o si scriva in partitura: chi fa canzoni è un musicista, un
compositore. Anche chi le ascolta non se lo dimentica. Curiosamente, se lo
scordano spesso i critici. Come è difficile trovare un articolo o un libro che
parli di canzoni, e nel quale ci siano più di un paio di righe dedicate alla
musica, in mezzo a corpose riflessioni sui testi, sulla biografia dell’autore
(del cantautore), sulla sociologia dell'ascolto! «Il pubblico non capirebbe»,
spiega il critico, dispensando parole come "lessema" o "déraciné",
e mascherando la propria incerta padronanza delle trascendentali nozioni di
"accordo" o "scala" (per non dire di "semitono").
I musicisti che fanno canzoni a
volte se la prendono: Fabrizio De André, ad esempio, rivendicava con forza il
suo essere un compositore, anche se di un tipo diverso da quelli per i quali
abitualmente si usa questo termine. E forse qualcosa di questo rispettabilissimo
e costruttivo risentimento c'è anche nell'ultimo lavoro di Ivano Fossati,
scritto per un rado organico che comprende Martina Marchiori al violoncello,
Paolo Silvestri a dirigere alcune stesure orchestrali, Claudio Fossati alla
batteria, ospiti come Gabriele Mirabassi e altri notevoli strumentisti, oltre al
pianoforte e al vibrafono dello stesso Ivano. C'è, quel risentimento
costruttivo, a cominciare dal titolo, Not One Word, scritto in molte
lingue su una bella copertina lontana dagli standard grafici della canzone
(almeno in Italia), e molto più vicina all'immagine della musica strumentale
"non classica" contemporanea, quella dei dischi ECM, per intenderci.
Tra l'altro, il cd di Fossati (intestato a Ivano Fossati Double Life: un
progetto, un gruppo aperto) esce proprio per l'etichetta Sony Classical, a
sottolineare con forza istituzionale il distacco, la diversità rispetto alla
canzone, almeno dal punto di vista del consumo.
La qualità e il carattere di questo album di canzoni senza parole (parafrasando
Mendelssohn) non sorprendono chi abbia presente il lavoro di Fossati nel campo
per il quale è più noto, né tantomeno chi abbia ascoltato le sue colonne
sonore per i film di Carlo Mazzacurati. Lo stesso Fossati tiene a ricordare come
fra le sue canzoni e i suoi album «serpeggi la scrittura strumentale fino
dall'inizio», come «non abbia potuto fare a meno di "contrabbandare"
temi strumentali» in quasi tutti i suoi dischi. E, si potrebbe aggiungere,
anche la qualità degli strumentisti è sempre stata molto alta. Qui però c'è
l'intenzione, la "forte volontà" di fare qualcosa di diverso, e non
si può non tenerne conto.
In molti dei quattordici brani dell'album (tutti di Ivano Fossati, tranne uno di
Claudio Fossati, uno scritto in collaborazione con Paolo Silvestri, più la
classica Besame mucho) lo strumento protagonista è il pianoforte, con un
suono solo leggermente riverberato, apparentemente non compresso, un timbro
"naturale". La ripresa sonora non è invasiva, ma non è neppure
totalmente trasparente: più vicina, negli intenti, nei mezzi e nei risultati,
al "suono ECM" o a quello della nuova musica da camera.(Krónos
Quartet, ma anche il disco recente di Viktoria Mullova con il suo ensemble).
Sono importanti gli spazi, i silenzi, l'aria: ma questa è una caratteristica
evidente del modo di comporre e di pensare il suono di Fossati anche quando si
occupa di canzoni. Come pianista, nel ruolo principale che è affidato a questo
strumento, Fossati fa un'ottima figura: non esagera, non pretende di essere il
virtuoso che non è, ha precisione ed espressione, tanto che le sue stesse
dichiarazioni («questo primo capitolo del progetto non fa di me un pianista ma
semmai un utilizzatore assai poco ortodosso del pianoforte») appaiono
eccessivamente modeste: Fossati sa quello che fa, sia come pianista che come
compositore.
Ma è musica "classica"? La domanda, lo so, è sciocca, eppure è
imposta dall'etichetta. Verrebbe da rispondere: non più e non meno di quella di
alcuni compositori cresciuti nel mondo "colto" (ho in mente
soprattutto Ludovico Einaudi) che sembrano aver intrapreso nell'universo delle
musiche un percorso inverso a quello di Fossati. Ma va dato atto a Ivano di non
cercare legittimazioni inutili: lo dichiara lui stesso, di non considerarsi «un
compositore nel senso classico e "alto" del termine». Al di là del
fatto che per le orchestrazioni si serve della collaborazione di Paolo Silvestri
(e questa è una pratica inusuale nella musica "classica", malgrado
precedenti illustri come la Rapsodia in blu di Gershwin), c'è in Fossati
e in questo lavoro un atteggiamento nei confronti del suono, della melodia,
della costruzione armonica, che trova corrispondenze nel jazz, nella canzone e
Bravo, e benvenuto nel mondo della musica strumentale, Ivano. Di cuore.
L’Unità – mercoledì 16 maggio 2001
MILANO La «doppia vita» di Ivano Fossati comincia con un
album di sola musica che fa parte di un progetto (chiamato appunto «Double Life»).
Ma che senso ha, proprio oggi, rinunciare alla possibilità di parlare? Glielo
abbiamo chiesto in questi giorni di strepiti postelettorali e di interrogativi
senza risposta.
Ivano, ma com’è: non ci sono più parole?
«Mah, guarda, non so. Ho la sensazione che il risultato delle elezioni sia più
grigio che netto. Il nostro è un Paese campione dell'arte sofisticata di alzare
polveroni, costruire monumenti di parole per poi non cambiare quasi niente.
Siamo perfettamente assestati nel centro di questo ago della bilancia che non
accenna a muoversi dai tempi della vecchia Dc».
Si è molto discusso dell'intervento degli artisti nella campagna elettorale e
qualcuno dice che sono stati controproducenti.
«Controproducenti non credo, che sia servito a qualcosa non so. Però so che ho
sempre stima per chi si espone e non importa per quale lato. Mentre ho sempre
provato un certo fastidio per quelli che si ostinano ad acchiappare tutto e
tutti. Questo vestito di grigiore ideologico viene indossato
Passando alla musica, sembra che tu tenda spesso ad abiurare le tue canzoni più
amate. Lo hai fatto con "La mia banda suona il rock" e anche con la
"Canzone popolare".
«Mi capita specialmente con certe canzoni. Se penso agli interessi musicali
miei di oggi e alle canzoni di anni fa ... alcune me le tengo care, altre non mi
interessano più. Posso provare affetto per qualche ricordo, ma ... ».
Come si prova affetto per canzoni scritte da altri?
«Sì, come se fossero cose che non mi appartengono più.
Le ascolto senza rinnegarle, ma solo per una questione di buon gusto. Le cose
fatte si riconoscono nel bene e nel male».
Prima di sentire questo tuo disco nuovo, pensavo che mi sarebbero mancate le
parole, ma quando l'ho sentito mi sono accorta che mi mancavano le immagini,
perché è una musica che evoca luoghi e storie.
«Sono rimasto sorpreso anch'io. Sono partito dall'idea di un lavoro che tenesse
più conto delle cose studiate in questi ultimi anni. Invece mi sono trovato a
fare la colonna sonora di un film immaginario. Pensavo che la mia liberazione
dalla parola mi avrebbe reso molto più estremo.
Pensavo che mi sarei lasciato andare a tutte le tentazioni di atonalità e a
cose meno accessibili. Invece
la mia sensibilità, il mio non essere un pianista, mi hanno portato in questa
direzione forse vicina non più alla canzone, ma a un film che non c'è e non ci
sarà, con grande vantaggio, devo dire, per la possibilità di comprensione e
anche di commerciabilità, che però non è stata cercata».
E che cosa cercavi?
«Prima di tutto c'è l'aspetto della prova. Per uno come me, che ha scritto
canzoni sbagliando mestiere (il mio sogno era suonare) e che si è tenuto vicino
questo fantasma suonatore, era inevitabile che prima o poi sarebbe venuto fuori.
A 50 anni non ce l'ho più fatta a trattenerlo: si è seduto al pianoforte e ha
cominciato a suonare. Non hai idea della felicità di uno che scrive le canzoni
per 30 anni e poi apre questa porta su uno spazio dove tutto è possibile. Le
parole sono uno steccato, il rischio, scrivendo canzoni è di trasformarsi in
piccolo narratore e piccolo musicista».
Perché,
essere un grande autore di canzoni non è una possibilità sufficiente?
«In base al mio grado di curiosità no. Io mi stanco di
qualunque cosa in tempi rapidissimi. E poi per affrontare questo nuovo lavoro ho
studiato per 7 anni. Il progetto era lì da tempo».
Ma tornerai a scrivere canzoni e testi, spero.
«Il prossimo sarà un disco di canzoni. E’ il mio lavoro amato, però questa
prova la volevo proprio fare. Ma soprattutto mi piace l'idea di dividere la mia
vita in due. Se scrivessi una colonna sonora all'anno, o se mi offrissero una
bella sceneggiatura diciamo ogni due anni forse ... ma le occasioni di
esprimersi solo con la musica sono rare».
Però in questo momento che sembra così imbarbarito, le parole aiutano a
trovare un senso.
«Il senso si trova anche nella musica. Il conforto della parola lo trovo dentro
la musica. E’ solo questione di abituarsi a tendere l'orecchio».
Forse il luogo dove è più difficile trovare un senso (e anche ritrovare il
senso delle parole) è la politica.
«Vedo ancora tante persone attente, sensibili, nitidamente in rapporto col
tempo che vivono. Al di là dello sconforto, trovo che il pensiero di molta
gente sia vivissimo. Gli avvenimenti politici influiscono in modo pesante sui
nostri umori, ma non al punto di piegarli».
Forse
sarebbe il momento di tornare tutti a fare politica
«Il mestiere della politica non lo penso più. Lo pensavo fino a una
quindicina di anni fa. Oggi divido le cose solo in azioni utili o disutili, in
persone trasparenti e no. Procedo col machete nella giungla, come riesco, come
posso, evitando i tranelli e le persone dannose».
E
non ti ha mai attirato il mestiere della politica?
«Sono grato alla sorte di avermi dato la capacità di fare la musica. Non
so fare altro. Al contrario di quello che dice Berlusconi, la politica è un
mestiere preciso, che io non saprei fare, ma so riconoscere. Gli artisti si
prestano ad essere simboli, ma ora c'è più bisogno di gente che lavora».
(Articoli
rintracciati grazie ad Alex e agli amici della Mailing List)
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